Ancora sul rapporto medico specialista in fisiatria/fisioterapista
LUCA BENCI – Giurista
Mi si chiede di reintervenire sulla annosa questione del rapporto tra il medico specialista in fisiatria e il fisioterapista. Non entro nella questione politica, rimango sull’esame delle questioni strettamente giuridiche che restano il caposaldo attraverso il quale la società conferisce il mandato alle categorie professionali e definisce il ruolo che devono avere all’interno del sistema.
L’agire professionale del fisioterapista è definito – i lettori di questa Rivista lo sanno ormai bene – da un complesso di fonti normative composto da due leggi ordinarie e da un decreto ministeriale. Le leggi ordinarie sono rispettivamente la legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” e la legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”. Il decreto ministeriale è costituito dal DM 14 settembre 1994, n. 741 recante il profilo professionale del fisioterapista.
Come si dice in diritto, dal combinato disposto di queste norme, si evince che il fisioterapista ha “un campo proprio di attività e responsabilità”, agisce con “titolarità e autonomia professionale”, elabora “la definizione del programma di riabilitazione”, tanto per citare alcune espressioni. Queste attività vengono conferite al fisioterapista e non si capisce bene, quindi, quale pericolo si paventi per il reato di abusivo esercizio della professione medica, ex art. 348 codice penale, che punisce chi “abusivamente esercita una professione per la quale sia necessaria una speciale abilitazione da parte dello Stato”. La definizione del programma di riabilitazione appartiene al “campo proprio di attività e di responsabilità” o, per citare la terminologia della ricorrente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione in tema di esercizio abusivo, ne costituisce una competenza “esclusiva”.
Come è largamente noto il termine diagnosi è oramai da qualche decennio usato da tutte le professioni sanitarie ed è riferito alla professione medica solo quando si tratta di diagnosi clinica. Altri tipi di diagnosi, tra cui la diagnosi funzionale, non sono diagnosi cliniche e quindi mediche (si pensi inoltre alle psico-diagnosi, alle diagnosi infermieristiche, alle diagnosi logopediche che vengono mascherate con il termine di “bilancio”, ecc.).
Queste considerazioni provengono dalla normativa italiana che, lo abbiamo sottolineato in precedenza, consiste in due leggi ordinarie. Contrapporre delle vetuste (1998) linee guida ministeriali rispetto a due leggi ordinarie é come contrapporre una Fiat 500 a una Ferrari: il rapporto di forza è quello.
Sull’uso della qualifica accademica di “Dottore” non vi sono più discussioni in proposito. Il Ministro Moratti è intervenuto con un decreto ministeriale pubblicato il novembre scorso in cui si specifica che spetta a coloro che hanno conseguito la laurea ai sensi degli attuali ordinamenti didattici: la laurea in fisioterapia dà diritto all’uso del titolo accademico di Dottore. Non vi è parificazione con le vecchie lauree di durata più lunga: queste ultime infatti oggi hanno acquisito la qualifica accademica di “Dottore Magistrale”.
Così la regolamentazione statale che attribuisce il posto che, nella società, il sistema delle professioni occupa. Può essere imperfetto, ma sempre meglio delle autoattribuzioni di ciascuna categoria professionale e della pericolosa autoreferenzialità che talvolta emerge.