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Il Mucchio selvaggio – “Ancora il mattone…” – di Carlo Perfetti, già Direttore Scuola per Terapisti della Riabilitazione

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Tratto da “Riabilitazione Oggi” – Anno XIX – n.1 – Gennaio 2002

..Il mucchio selvaggio

“mucchi selvaggi erano le discariche

incontrollate in cui si scaricava di tutto: rifiuti urbani, rifiuti industriali,

scorie tossiche, rifiuti ospedalieri…”

Caro Direttore,

accolgo con piacere, ma anche con preoccupazione, la sua proposta di una Rubrica che tenti, in qualche modo, di stimolare la discussione tra i lettori affrontando importanti problemi riabilitativi, “senza, però” come mi ha “ordinato” lei “essere cattivo con nessuno” (e qui sta la preoccupazione: come si fa a mantenere fede a questo proposito nel mondo riabilitativo?).

Le propongo “il mucchio selvaggio”. Un titolo un po’ strano, come si conviene ad una Rubrica che si prefigga questi intenti. La scelta fa riferimento non tanto al film di Sam Peckimpah, quanto alla definizione che di questo termine ha dato Sebastiano Vassalli in un suo vocabolario di qualche anno fa (1). In effetti la Riabilitazione si presenta a volte come un “mucchio selvaggio” nel senso vassalliano del termine: raccoglie gli scarti del mondo, di quello medico, informatico, consumistico e chi più ne ha più ne metta, comprese anche le “scorie tossiche”, cioè tutto quanto era già stato provato e abbandonato come inefficace e che, approfittando della abitudine alla dimenticanza, ritorna periodicamente a far mucchio.

Con l’aiuto dei lettori, la Rubrica potrebbe tentare di individuare la composizione di questo “mucchio selvaggio”, i suoi motivi e i suoi effetti sullo sviluppo della disciplina.

Un argomento importante, dal quale iniziare questa analisi, potreb­be essere derivato da una riflessione sulle possibilità e sui modi di “fare scienza in riabilitazione”. E’ questo un tema affrontato di frequente, negli ultimi anni, in maniera un po’ troppo scontata, senza neppure riflettere un minuto su cosa vuol dire esattamente fare scienza (è sufficiente quantifica­re?) e cosa vuol dire fare riabilitazione (stimolare la contrazione di qualche muscolo in più?).

In questo ambito un contributo so­stanzioso al volume del mucchio, è da­to, senza alcun dubbio, da una pratica diffusa, che può essere definita della “doppia verità”, della quale può essere utile una analisi, data la sua rilevanza per il futuro della riabilitazione.

Vediamo in cosa consiste.

Esistono problematiche ed acquisi­zioni, fatte proprie dallo scienziato nel suo laboratorio, che il riabilitatore, pur essendone in qualche modo a cono­scenza, preferisce non tenere presenti nell’esercizio. Si comporta cioè, nella pratica, co­me se tali acquisizioni non esistessero e come se le conoscenze e i problemi fossero ancora quelli di tanti anni fa.

Vengono ad esistere, in tal modo, una “verità” valida per lo scienziato, affiancata ad una “verità” diversa, un po’ più abborracciata, valida per il riabilitatore che deve lavorare in pale­stra col malato.

Basti pensare alle recenti acquisi­zioni del neuroscienziato sulla funzio­ne cerebellare, o sull’area motoria, o ancora, a livello più generale, sulla or­ganizzazione motoria, che non hanno ancora, dopo tanti anni, oltrepassato la porta delle palestre dove si pratica la riabilitazione.

La diffusione di questa pratica che, di fatto, conduce al quasi assoluto im­mobilismo culturale dell’operare riabi­litativo, fa sì che laboratori di ricerca e palestre siano visti come entità sepa­rate, con buona pace della scientificità dell’atto riabilitativo.

A questo proposito può risultare in­teressante la lettura del numero di marzo 2001 di Europa Medicophysica, organo ufficiale della SIMFER; SIMIFER alla quale non possono non essere ri­conosciuti notevoli meriti culturali, tra i quali quello di rappresentare e di e­sporre chiaramente, per chi sappia leggere, il pensiero della componente fisiatrica del pianeta riabilitativo.

Sulla rivista, nonostante l’opera di S. Licht (2), non si trovano frequente­mente contributi che trattino di eserci­zi, cosa che ha fatto pensare ai più, quelli che sanno leggere, che la com­ponente fisiatrica abbia abbandonato questa attività nelle mani dell’altra componente, quella fisioterapica, circoscrivendo il suo ruolo alla misura dei risultati, da effettuarsi rigorosamente (vedi gli Atti del convegno “La valuta­zione dei risultati in medicina riabili­tativa” organizzato da Riabilitazione Oggi nell’anno 2000) prima, dopo e al di fuori del trattamento, e abbia ri­nunciato all’idea di interferire sulle scelte di palestra, idea che sembrava rappresentare invece, negli armi ‘8o, il massimo dei desiderata fisiatrici.

Il numero di marzo in oggetto ri­porta, invece, due interventi di note­vole peso, anche per il prestigio dei due Autori, che finalmente tentano di indirizzare l’attenzione dei lettori fisia­tri verso problematiche connesse con l’esercizio terapeutico e il cui contenu­to può servire ad illustrare la nostra i­potesi della “doppia verità”.

Entrambi gli articoli fanno riferi­mento ad un tipo di esercitazione, proposto negli ultimi anni da alcuni autori americani, per il recupero dei disturbi motori presentati dai soggetti affetti da “esiti di ictus”. Si tratta di e­vocare, nell’arto paretico, movimenti “forzati” attraverso una limitazione meccanica del lato sano e tale eserci­tazione viene definita C.I.M.T. (Con­straint Induced Movement Therapy) o FU. (Forced Use).

Mentre il primo dei due articoli (3) cita la proposta assieme a diverse al­tre, utilizzate, con notevole successo (tutte!!!!), nel recupero della motilità fine della mano in caso di lesioni a ca­rico del S.N.C, il secondo (4) è intera­mente dedicato alla applicazione della stessa proposta al trattamento dell’ar­to inferiore, per il quale vengono an­che suggerite alcune esercitazioni in­novative (5).

Il contenuto della proposta non rappresenta di per sé niente di scan­dalizzante, se ne sono viste infatti an­che di più stravaganti. Può forse rive­stire interesse, almeno per i più giova­ni, segnalare che si avvicina molto a quanto facevano i vecchi terapisti tan­ti anni fa, prima del boom delle meto­diche neuromotorie, quando sistema­vano un mattone sotto il piede sano del paziente posto in stazione eretta, in maniera. da costringerlo a forzare sull’arto plegico, convinti di eliminare in tal modo la più appariscente delle componenti della sinergia di estensio­ne e di aumentare la forza dell’arto plegico (6).

Col progredire delle conoscenze re­lative al recupero, questa strategia scomparve dalla scena riabilitativa. Negli anni ‘75-’80 Aulo Mercuriali, dell’Università di Bologna, forte delle sue conoscenze neurologiche, tentò di riportare in auge la proposta dell’uso forzato del lato plegico tramite blocco dell’arto sano, arricchendola di con­notazioni neurofisiologiche. Ma anche questa volta non ebbe eccessivo suc­cesso. Alcuni suoi articoli sono stati pubblicati sulla rivista della SIMFER di quegli anni, e ad essi si rimandano gli interessati, non fosse che per dare a Cesare quel che è di Cesare e alla ricer­ca fisiatrica italiana quello che è suo. I fisiatri italiani hanno già proposto da decenni questo tipo di trattamento, e non avevano certo bisogno di aspetta­re la comparsa della C.I.M.T. o della FU.

Come si vede, la sostanza della proposta non meriterebbe di per sé altro che una certa considerazione dal punto di vista storico. Merita, invece, di essere sottolinea­ta, per una discussione, la imposta­zione comune del due articoli, sia pur diversi in quanto a contenuti di su­perficie.

Entrambi gli Autori, dopo aver rimarcato con diversi accenti, la estre­ma raffinatezza del funzionamento del sistema nervoso centrale, avanza­no, o supportano, proposte di esercita­zione che appaiono, invece, estrema­mente semplici e semplificative, e che, solo in minima parte, tengono conto di conoscenze provenienti dalle neu­roscienze, presenti ormai, a livello teorico, a tutto il mondo riabilitativo, confermando l’ipotesi della esistenza di una doppia verità.

Leggendo i due lavori, infatti, le perplessità sono molte:

– Come è possibile pensare che il recupero delle caratteristiche più raffi­nate di una organizzazione motoria complessa, come quella attribuita a S.N.C., possa essere ottenuto sempli­cemente costringendo il paziente a non utilizzare il contributo muscolare di parte del lato sano?

– Come è possibile che una “immo­bilizzazione del lato sano”, peraltro molto parziale, inibisca l’elaborazione dei compensi da parte del S.N.C.? For­se sarebbe stato bene chiarire prima il significato e la origine dei compensi (per un tentativo di tanti anni fa si ve­da ad esempio Anokhin (6)), e magari anche delle strutture che più delle al­tre contribuiscono a questi, cioè quelle impari mediane. Si tratta di strutture estremamente complesse, oltre che da un punto di vista chinesiologico, an­che da un punto di vista neurofisiolo­gico, come ben messo in evidenza dalle ricerche sulla linea mediana, condotte, tanti anni fa, da Manzoni, da Conti, da Caminiti e da altri fisiolo­gi della scuola di Ancona e recente­mente confermate.

– Come è possibile semplificare talmente il fenomeno del “ non uso ap­preso”, in occasione di una lesione a carico del S.N.C., attribuendolo sola­mente alla mancanza di contrazioni muscolari, e pensando pertanto di po­terlo evitare solamente con il riscorso alla C.I.M.T.?

– Come è possibile, infine, nel 2002, dopo tutti gli studi sulla orga­nizzazione motoria, continuare ancora a proporre di trattare i deficit da lesio­ne del S.N.C. come deficit quantitativi di reclutamento e, per di più, di sin­goli muscoli?

Perplessità che derivano dal con­fronto con conoscenze presenti, ormai da anni, a quasi tutto il mondo riabili­tativo. E questi non sono che alcuni esempi di applicazione della “doppia verità”: altro sono le neuroscienze, altro la pa­lestra.

Un’altra osservazione, che confer­ma la validità di questa ipotesi, è la mancata riflessione su un’altra cono­scenza che quasi tutti, a livello teorico, ben posseggono: non esiste una emi­plegia sola, ma tante tipologie di emi­plegia in relazione alla sede della le­sione. Non si può pertanto parlare sic et simpliciter di “esiti da stroke”. Ma soprattutto non si può fare di ogni er­ba un “fascio riabilitativo”, cioè pro­porre di trattare tutte le emiplegie allo stesso modo, con gli stessi esercizi.

Chi si sentirebbe di definire identici i loro problemi motori, e pertanto di sottoporre al medesimo trattamento, un emiplegico destro, magari aprassi­co e un emiplegico sinistro, magari e­miinattento? Un emiplegico con lesio­ne del lobo parietale anteriore e uno con lesione posteriore? E il blocco del lato sano va bene in tutti i casi? Per tutti gli emiplegici o addirittura per tutti gli “esiti di stroke” (anche per quelli cerebellari o a carico dei nuclei della base?).

La proposta di esercitazioni identi­che, senza alcun tentativo di dare una interpretazione riabilitativa dei diversi tipi di patologia, rappresenta una conferma della nostra ipotesi della “doppia verità”, perché cozza contro le conoscenze relative alla organizza­zione del S.N.C., oltre che contro la pratica di palestra.

Rappresenta anche una incon­gruenza rispetto al tentativo, dichiara­to, di trasformare la riabilitazione In qualcosa che abbia a che fare con la scientificità, in quanto non si può fare scienza con conoscenze di epoca re­mota.

E’ indiscutibile che tutto questo ri­sulta estremamente rischioso per il fu­turo della riabilitazione. La diffusione, purtroppo notevole, di questo modo di ragionare, dovrebbe spingere colo­ro che hanno a cuore il futuro della riabilitazione ad interrogarsi sulla realtà di questo procedere e a doman­darsi quali sono i “reali” motivi per cui continua ad essere praticato, e, so­prattutto, a chi “giovi”. Non avrebbe, altrimenti, tale diffusione un procede­re che proponga, per il riabilitatore impegnato negli esercizi in palestra, verità diverse da quelle del ricercatore.

Non è da escludere che entrambe le facce del pianeta riabilitativo abbiano la loro parte di responsabilità: l’una (quella fisiatrica), perché non ha alcun reale interesse a mettere nelle mani dell’altra uno strumento raffinato, l’altra (quella fisioterapica) perché l’acquisizione di strumenti raffinati costa fatica e studio, che probabil­mente ritiene inutili. Se non trova ri­sposta a questa domanda, la riabilita­zione è costretta a rimanere ferma al «mattone”, in attesa, dopo C.I.M.T., FU. ed “occlusion exercises”, di altre innovazioni terminologiche, come massimo progresso culturale.

Col risultato di far crescere ancora il volume del “mucchio selvaggio”.

1. Vassalli S. : Il neoitaliano. Zanichelli, Bologna. 1989.

2. Licht S.: L’esercizio terapeutico. Longanesi, Torino 1967.

3. Franceschini M., Mammi P., Perelli Ercolini D: Phisiology, plasticity and the­rapeutic arm exercise in hemiplegic pa­tients, Eur. Med. Phys. 37:15, 2001.

4. Tesio L.: Learned non use affects the paretic lower limb in stroke: “occlusive” exercises may force the use, Eur. Med. Phys. 37: 51, 2001.

5. Interessante può essere definito il terzo degli esercizi proposti, nel quale si consiglia l’uso di una pinna da nuoto all’arto inferiore sano, oltre al blocco meccanico del ginocchio, sempre dallo stesso lato. Allo scopo, probabilmente, di determinare una sorta di “andatura falciante” bilaterale.

6. Il secondo degli esercizi proposti, infatti, riprende l’uso di un rialzo sotto il piede dell’arto sano, a partire dalla posizione seduta.

7. Anokhin P. K.: Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato. Bulzoni, Roma, 1975.

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Postato il 16 gennaio 2021