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…..Il Mucchio selvaggio
“mucchi selvaggi erano le discariche incontrollate
in cui si scaricava di tutto: rifiuti urbani, rifiuti industriali,
scorie tossiche, rifiuti ospedalieri…”
(S. Vassalli)
Tratto da “Riabilitazione Oggi” – Anno XXI – n.1 – Gennaio 2004
Quando, tanti anni fa, ho cominciato a praticare la riabilitazione, le attività riabilitative attuate nella maggior parte delle palestre erano comprese, nella loro totalità, in un binomio che sintetizzava tutte le possibilità operative disponibili per il terapista: attivo / passivo (A/P).
Qualsiasi domanda venisse rivolta al fisioterapista relativamente alle sue possibilità di intervenire sulla patologia del paziente, o alle modalità del suo operare, non si andava più in là di un “mobilizzazione attiva e passiva”, che stava ad indicare le tipologie disponibili per l’intervento.
In qualsiasi tipo di patologia, dalla rigidità di caviglia alla paralisi del faciale, dall’emiplegia alla paraplegia, in qualsiasi tipo di lesione, centrale o periferica, nervosa od ortopedica, e qualunque fosse la funzione da recuperare, il cammino, la manipolazione, il raggiungimento o l’ammortizzamento ed il segmento da trattare.
Unica discriminante che determinava l’appartenenza ad una categoria o all’altra (attiva o passiva, appunto), era rappresentata dalla presenza o meno della possibilità e della “volontà” di contrarre i muscoli da parte del paziente.
Anche la qualità degli esercizi non superava effettivamente lo stesso grado di complessità, non meritando neppure di essere designata alcuna altra indicazione operativa al di là del coinvolgimento della “volontà” del paziente.
Qualche terapista aggiungeva anche “segmentaria” e “globale”, ma si trattava di raffinatezze sperimentali ignote ai più.
Qualche anno dopo, in seguito all’aprirsi della fisioterapia alla neurofisiologia, si aggiunse a questo, invero modesto, armamentario, anche lo stiramento o per meglio dire (un po’ di esotismo non fa mai male) lo stretch (più di questo non ci si poteva attendere, vista la profondità delle conoscenze generali).
Ci si accorse che quando il malato non era in grado di attivare alcuna contrazione in maniera “ volontaria”, era possibile ottenere una certa attivazione del muscolo introducendo il ricorso a stiramenti violenti, bruschi, del muscolo interessato, del quale si tentava di elicitare una risposta riflessa.
La fisioterapia superava così anche la difficoltà, l’unica riconosciuta, caratterizzata dalla assenza di capacità di movimento volontario.
Lo “stretch” ebbe grande successo soprattutto nella rieducazione della patologia neurologica e del bambino e dell’anziano, anche se non mancarono le applicazioni alla patologia ortopedica. Rappresenta a tutt’oggi il più diffuso e approfondito (!!!?) tentativo di applicazione di concetti neurofisiologici alla pratica riabilitativa.
Sorse così, dopo la generazione “A/P”, la generazione dello “stretch”, preparata e specializzata a fare ricorso in ogni caso al toccasana rappresentato, con buona pace di Granit, Matthews e di tanti altri seri fisiologi, dallo stiramento rapido del muscolo per ottenere un movimento corrispondente, secondo le intuizioni fisioterapiche, a quello reale.
In ogni caso, cioè in tutte le tipologie di patologia, in tutti i soggetti e in tutte le funzioni da recuperare.
Quando poi ci si accorse che, oltre alla volontà ed allo stiramento muscolare, rivestiva una certa importanza anche la presenza di un programma motorio, la solerzia fisioterapica toccò il massimo dei suoi vertici proponendo l’esecuzione di movimenti volontari ben strutturati, corrispondenti cioè alla attivazione di un programma motorio, da compire sotto la guida motoria del terapista.
La cosa interessò soprattutto il segmento più raffinato del corpo umano, la mano, “organo corticale” per eccellenza, per cui si assistette per anni alla pratica di far aprire e chiudere le dita della mano, con tutte le dita flesse ed estese globalmente.
E questa fu la massima concessione ai progressi dello studio dell’azione.
Così, dopo la generazione dell’ “A/P” e dopo quella dello “stretch”, fu la volta della generazione del “ciao”, specializzata nel fare compiere, con diversa velocità, quei movimenti della mano che ricordavano questo simpatico gesto di saluto.
In breve tempo anche questa strategia fu riscontrata efficace in tutte le occasioni, in tutte le patologie che potevano interessare la motilità della mano, nel recupero di tutte le funzioni.
Erano in verità i mitici anni settanta, quelli caratterizzati, purtroppo solo negli altri ambiti culturali e non certo in quello fisioterapico, dalla fantasia al potere.
Nel frattempo la ricerca biologica e le neuroscienze stavano progredendo e venivano poste in crisi diverse conoscenze ritenute basilari.
Il cervello non era una struttura a funzionamento fisso predeterminato, alcuni circuiti si attivavano solo in presenza di attenzione e di previsione di risultati, la corteccia motoria non era una rappresentazione di tutti i movimenti del corpo rappresentati una volta ed una sola in maniera somatotopicamente ordinata, il sistema nervoso centrale godeva di una ampia plasticità, che poteva rappresentare la base per il recupero oltre che per l’apprendimento; vennero superati alcuni elementi ritenuti definitivi, quale quello dei circuiti “dedicati”: il fascio piramidale ricevette attribuzioni diverse rispetto a quella di condurre “ordini” dalla corteccia ai muscoli, l’integrazione motorio-sensitiva si mostrava molto più complicata di quanto non si potesse pensare.
E così via fino ad arrivare ai giorni nostri, di scoperta in scoperta, attraverso precisazioni che modificavano sostanzialmente anche l’interpretazione delle patologie più frequenti, vedi ad esempio quelle determinate da lesioni del cervelletto, l’aprassia, etc.
Sostanzialmente però le strategie operative proposte dalla fisioterapia non sono cambiate: si è continuato con intensità a trattare tutte le patologie nello stesso modo, anche se negli ultimi tempi non si parla più di stretch, forse è divenuto un concetto troppo difficile, in quanto implica una, anche se modesta e superficiale, conoscenza di neurofisiologia, e neppure di “attivo e passivo” e neppure si parla di ”volontà”, che probabilmente viene ritenuto un concetto eccessivamente “mentalista” e quindi da evitare (il cultore della fisioterapia ha notoriamente bisogno di concretezza).
Ma di differenziare l’intervento sulla base della patologia e delle funzioni da recuperare non ne ha parlato ancora nessuno.
Eppure tutti sanno che le caratteristiche di ogni lesione sono peculiari in relazione al tessuto leso, alle sue caratteristiche ed alla sua plasticità, per cui in rapporto ai diversi tessuti occorrerebbe per lo meno domandarsi quale tipo di esercitazione appaia più opportuna alla luce delle caratteristiche biologiche. Esistono anche, e anche questo tutti lo sanno, almeno a livello di nozione generale, tessuti differenziati, come il sistema nervoso centrale, che sono caratterizzati da localizzazioni funzionali, sulle quali da più di un secolo è aperto un dibattito di interesse non indifferente per chi deve, o dovrebbe, (o che per lo meno sarebbe pagato per farlo) occuparsi di recupero.
Tutti sanno, ad esempio, che l’emisfero destro non è identico, come attributi funzionali al sinistro e che gli esiti di una lesione del passaggio occipito-parietale, non sono identici a quelli di una lesione fronto-parietale, anche se in tutti e due i casi si può essere in presenza di emiplegia, così come una lesione cerebellare non è affatto sovrapponibile, dal punto di vista del danno funzionale, ad una dei nuclei della base.
Ma allora perché si insiste nel somministrare “A/P”, “stretch”, “ ciao”, ed altre amenità del genere, a tutti i malati in maniera indiscriminata???
Si provi a pensare a come verrebbe qualificato un internista che trattasse tutte le patologie dal raffreddore all’infarto con la medesima medicina.
E un chirurgo, che sapendo fare una sola operazione pretendesse di porla in atto di fronte a tutte le patologie?
Senza contare che in riabilitazione la scelta dell’esercizio non può essere indifferente al tipo di funzione che deve essere recuperata, altra è la progettazione di esercizi per il recupero del cammino, altro per la funzione della manipolazione.
Come è possibile pensare di risolvere tutto con l’uso di A/P, dello stretch oppure del “ciao” in tutte le situazioni?
Come è possibile che nessuno, nel lavoro quotidiano, avverta disagio professionale nel procedere in questo modo, così poco specifico?
Le cose in effetti sono andate sempre in questo modo, anche adesso non è sostanzialmente cambiato nulla negli ultimi trenta anni, attivo e passivo prima, attivo e passivo oggi, per tutti.
Anzi una novità c’è stata. In questi ultimi tempi si sta facendo avanti, sempre più vigorosa, la proposta del “forced use”, che, in quanto ad originalità e a specificità, non ha da invidiare nulla a nessuna delle proposte precedenti.
Si tratta di bloccare le parti del corpo rimase sane e di forzare il soggetto ad usare sempre, col massimo vigore, la parte affetta da patologia.
La rieducazione di un soggetto emiplegico, magari anche aprassico, non richiede alcuna perdita di tempo per l’interpretazione riabilitativa della patologia, non richiede alcun ragionamento, anche questo troppo dispendioso, sulle esercitazioni più opportune da porre in atto: è sufficiente immobilizzare l’arto superiore sano e costringere il soggetto ad usare più spesso possibile e con la maggiore intensità possibile l’arto paretico.
Si tratta di una lesione che ha colpito il lobo parietale sinistro?… forced use .
E se la lesione è a carico dell’emisfero destro? forced use!!!
Così come se la lesione interessa il cervelletto, i nuclei della base, etc.
E se si deve recuperare la deambulazione ? “forced use”, e se deve invece essere recuperata la manipolazione? ancora “forced use”… ovviamente.
Come la A/P, come lo stretch, come il “ ciao”, anche questa proposta risulta buona in tutti i casi e per tutte le situazioni patologiche e per tutte le funzioni da recuperare.
Naturalmente è stata già raccolta nella letteratura internazionale una lunga serie di casistiche di valore, dotate di una rilevante obiettività ed una quantità di dati scientifici veramente notevole, per non costringere a dubitare della sua validità teorica e pratica.
Non c’è niente di meglio della comunità scientifica internazionale, che possa essere garante della validità di una strategia riabilitativa… sul piano teorico come su quello pratico!!!
Ma non ce n’era neppure bisogno!!!
La validità maggiore, che rappresenta poi il lasciapassare richiesto da certi ambienti fisioterapici, consiste proprio nel fatto che, come le proposte di successo che lo hanno preceduto, anche il forced use non costringe a pensare, anzi…, che non costringe a studiare, anzi…, che rende superflua l’osservazione del malato e che forse rende superfluo anche lo stesso terapista (ma di questo non ne parla ancora nessuno…)
Ma soprattutto, come le strategie che in passato hanno avuto il massimo successo, va bene in tutti i casi, dall’alluce valgo all’emiplegia, dal cerebellare al parkinsoniano, dalla paralisi dell’spe alle pci.
Viene in mente una vecchia e lacrimosa storiella di vita militare, ambientata nell’Infermeria, nella quale un colonnello medico provvede a soddisfare le richieste sanitarie delle reclute.
– Tu… cosa hai?
– Un foruncolo…
– Bene, (rivolto all’assistente) spennellature con tintura di iodio… (l’assistente esegue)
– E tu…
– Un eczema …
– Bene… spennellature con tintura di iodio… (eseguite)
– E tu??
– Io soffro di emorroidi
– Bene… spennellature con tintura di iodio… (eseguite)
– E tu???
– Tonsillite…
– Bene… spennellature con tintura di iodio… Ma cosa c’è che non va…???
– Scusi colonnello, non si potrebbe mica cambiare il pennello???
… ecco, cari fisioterapisti, ma non si potrebbe, qualche volta, almeno cambiare il pennello???
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Postato il 16 gennaio 2021