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Il Mucchio selvaggio – “Storie di palestra” di Carlo Perfetti, già Direttore Scuola per Terapisti della Riabilitazione

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..Il Mucchio selvaggio

mucchi selvaggi erano le discariche incontrollate

in cui si scaricava di tutto: rifiuti urbani, rifiuti industriali,

scorie tossiche, rifiuti ospedalieri…”

(S. Vassalli)

Tratto da “Riabilitazione Oggi” – Anno XX – n.9 – Novembre 2003

Gentile Direttore, Le confesso una certa difficoltà a credere che in tutto questo tempo nessuno, dico nessuno degli illustri Cultori della Fisioterapia, si sia fatto vivo per dare risposta alle domande relative all’enigma del sessantesimo giorno, poste sullo scorso numero della Sua Rivista.

Il sospetto è, me lo permetta, che Lei mi nasconda la posta arrivata in Redazione, per un certo sadico gioco nei miei confronti. Come è possibile, mi domando e Le domando, che i Cultori della Fisioterapia siano così poco sensibili da non sentire il bisogno di illuminarci su quanto accade realmente allo scadere del sessantesimo giorno. Ci mostrino almeno una piccola statistica, chissà quante ne hanno, o una altrettanto piccola raccolta di voci bibliografiche raccolte dalla letteratura internazionale; certo non mancheranno proprio a loro, che sono i cultori riconosciuti della letteratura internazionale. Ci permettano di comprendere queste loro scelte e di abbracciarle entusiasticamente.

Un ultimo sospetto è che i concetti che ne sono alla base siano oggetto di una monografia (ad esempio: “La fisioterapia del sessantesimo giorno”) o addirittura di una “summa” (potrebbe avere come titolo “Il manuale del sessantenarista”) e che non vogliano scoprire le carte, per paura dei soliti plagiari?

Nel frattempo, mentre eravamo nella attesa di notizie illuminanti che ci potessero servire da guida nel difficile compito di trattare adeguatamente i pazienti, è accaduto qualcosa che può essere giudicato realmente importante nel mondo della riabilitazione e che va al di fuori delle consuete considerazioni di questa rubrica.

Qualcosa che finalmente porta la riabilitazione al di fuori del “mucchio” e al di fuori del “selvaggio”.

Circa una anno fa una Associazione riabilitativa ha lanciato un concorso letterario per uno scritto che prendesse le mosse dal lavoro in palestra e comunque dal mondo della riabilitazione.

Si trattava di un tentativo che gli stessi proponenti giudicavano disperato e un po’ folle, destinato cioè al fallimento per carenza di partecipanti.

Nella realtà però, bandito il premio letterario, anche senza troppa pubblicità (l’unica era quella della Sua Rivista), le partecipazioni sono state numerose, circa una quarantina; i testi quasi tutti validi, ed il loro livello di tutto rilievo sia dal punto di vista letterario che riabilitativo, tanto che gli organizzatori hanno deciso di raccogliere gli scritti più significativi in un volume ( 1).

La invito a leggerlo per controllare se questa mia soddisfazione non sia condivisibile.

La cosa non può non far piacere ai cultori della riabilitazione, non li esime però dal porsi almeno due domande.

1. Come mai tante persone, per lo più addetti alla riabilitazione (c’è anche qualche paziente che ha raccontato le sue esperienze), hanno sentito la necessità di descrivere il loro vissuto in palestra, di sottoporlo a rielaborazione o addirittura di immaginarsene uno?

Le risposte possibili devono tutte indurre a qualche considerazione sul nostro mondo, sia che si attribuisca questa ampia e qualificata partecipazione alla scontentezza del lavoro, alla sua meccanicità esasperata o alla assenza di una reale interazione con il malato. Sarebbe pertanto giustificata la ricerca di una evasione nella scrittura di fantasia.

Si potrebbe attribuire, questa notevole partecipazione, anche al contrasto tra le aspettative degli operatori e la realtà prosaica (a dir poco), o al timore di non esser stati compresi appieno dalle persone con le quali si è lavorato, malati, medici o colleghi (da qui la necessità di ripensare il rapporto o addirittura di inventarsene uno).

2. L’altra domanda, ancor più stimolante, riguarda il cosa abbia accomunato tanti tecnici provenienti da realtà diverse, sia dal punto di vista culturale che da quello tecnico.

Cioè, cosa hanno voluto in realtà dirci tutti gli autori?

Non è senz’altro una lettura esasperata, quella che mira a vedere in tutti i testi un atteggiamento critico nei confronti della riabilitazione tradizionale (la fisioterapia fatta di macchine, di pesi, di stimoli, di mezzi fisici, di urti, di contrazioni muscolari, che riduce il malato ad una sorta di macchina o di automa e che lo riduce al silenzio).

Si trova infatti in tutti gli scritti, la certezza che alla base della interazione riabilitativa ci sia qualcosa di più e di fondamentalmente diverso rispetto alla fisioterapia tradizionale.

Spero, caro Direttore, che trovi il tempo e il modo di dare un’occhiata ai testi che i colleghi hanno prodotto e potrà riscontrare una serie di elementi che inducono a mettere in crisi, più di ogni considerazione critica scientifica, il modo attuale di cercare il recupero dopo lesione.

Si può partire prendendo in considerazione, come primo elemento, i dialoghi e soprattutto le descrizioni dei rapporti, così frequenti nei testi, tra terapista e paziente.

La cura era per entrambe, anche quando a stento lo percepivamo. Cara Claudia ti ringrazio” dice la terapista Annalisa Dorbolò alla malata Claudia.

Enrico Cappa conclude il suo lavoro, osservando che il protagonista del film “Ordet” di Bergman, Johannes, autore di un “miracolo” che per certi versi nel testo viene paragonato ad un intervento riabilitativo, non ci dice se quel Dio, nel nome del quale parla, gli ha davvero ispirato la parola, oppure se ha atteso in silenzio che si sforzasse di trovarla e di cercarla dentro di sé .

Un secondo elemento che merita di essere analizzato, è rappresentato dalla rievocazione dei percorsi svolti dal terapista nella fatica del proprio lavoro in direzione di qualcosa di diverso, che suggeriscono la contestazione ad un rapporto puramente esterno con il malato, come è di solito appreso sui banchi delle scuole dove si insegna la fisioterapia “classica”.

Ed io credevo di risolvere tutti i problemi restringendo la visione ad un singolo elemento…a quante persone non sono stata di aiuto! Certo in buona fede o piuttosto in totale ignoranza” riporta sconsolata Emanuela Gardenghi nel suo contributo.

E ancora Fortunata Romeo “anch’io sono scesa nella vita, ho appoggiato i piedi per terra, ho respirato il piacere dei miei passi. Ho scoperto che piedi e mani mi appassionano”.

3. Un terzo elemento da sottoporre ad analisi, che riveste importanza non marginale per la interpretazione proposta, è costituito dalle intersezioni tra le esperienze di palestra e le altre discipline culturali che si occupano dell’uomo e dei prodotti del suo cervello.

Sia la antropologia culturale, come nel caso del patriarca di Gaetano Grotto, o la storia di Sicilia nella bella cantata di Filippo Cavallaro, sia le altre modalità di conoscenza, come ad esempio quella artistica. Basti pensare alla rielaborazione di Calvino messa a punto da Alessandra Vecoli, proprio a partire dal lavoro in palestra o alla interpretazione riabilitativa del brano di un poema di Majakowskij ad opera di Costante Gauna.

Riferimenti che non debbono essere ritenuti sfizi intellettuali, ma che acquisiscono valore riabilitativo, se visti come tentativi di meglio comprendere la patologia del malato utilizzando, come chiave interpretativa, punti di vista diversi. Il che presuppone però di vedere nella patologia da riabilitare non solo una incapacità motoria, ma anche, e soprattutto, una difficoltà cognitiva e quindi esistenziale.

Ma la contestazione più frequente risulta dalla descrizione di vissuti, vissuti ed esperienze, che sono di solito riconosciuti come del tutto estranei dai cultori della fisioterapia, cioè di quella disciplina che usa mezzi fisici per ottenere modificazioni di tipo fisico.

Il paziente di Marco Tulipano, che tiene come ricordo una tavoletta oscillante sopra il televisore di casa, proprio parlando degli esercizi svolti con questo sussidio dice “sfido chiunque… a dire cosa si sente quando i polpastrelli si schiacciano e si allargano sul piano e una ventosa li risucchia nell’abisso e una fitta ragnatela attraversa il palmo della mano e tira indietro quintali di reti stracariche di pesci.

Quando un nodo ti attorciglia il braccio, proprio mentre cerchi di trattenerti dal dare l’ultimo strappo. Dico di un pizzico di sale che si consuma levigando la pelle. O ancora di un frammento di pressione tra i petali delle dita che li fa scaldare e aderire e affondare tanto da accarezzare ogni singola ruga di una corteccia matura”.

E Beppe, il paziente dell’”Armadio dei Suoni” di Carlo Geminiani, che paragona l’armadio dei sussidi per la riabilitazione al bosco sonoro di Lavarone, che, “prima che gli vengano sottratti gli alberi” per costruire strumenti musicali, “esegue un concerto finale di legni. E’ un concerto che si sviluppa di sera o di notte, quasi muto, fatto di aria e di voli, di vento fra un tremolare di fronde e di brividi d’erba. Bisogna ascoltare in silenzio, distesi a terra abbracciati e guardando il cielo: come vivere intensamente e riprendersi da un sogno”.

Dialoghi e relazioni, quindi, percorsi del sapere, intersezioni tra ambiti culturali diversi e vissuti riabilitativi, questi gli elementi che fanno del testo prodotto, una sorta di atto di accusa nei confronti della fisioterapia. Che contestano quella che può essere definita “riabilitazione spettacolo”, cioè una riabilitazione volta al recupero di un corpo, la cui essenza ed il cui significato restano da vedere dall’esterno, da misurare dal di fuori, in terza persona, proprio come si fa quando si assiste ad uno spettacolo. Fisioterapia che, nella migliore delle ipotesi, permette di recuperare un corpo ed un movimento mai da sentire, da percepire, da condividere con altri nello sforzo di dialogare e nel tentativo di conoscere. Fisioterapia che trascura, o che comunque non ritiene rilevanti, tutti i valori interni, i vissuti, le proiezioni nel futuro, le aspettative, le intenzionalità, i significati.

Se si prova, e lo consiglio, caro Direttore, ai Suoi Lettori, ad usare questa chiave di lettura per le “storie di palestra” presentate nel volume, i personaggi, i dialoghi, le relazioni terapeutiche, i percorsi, i vissuti acquisteranno allora in maniera compiuta il loro significato più autentico. Quello di antidoti dello spettacolo, al quale siamo costretti quotidianamente a dare il nostro contributo.

1) AA VV Storie di palestra, ARS, Circolo Il grandevetro, Pisa.

 

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Postato il 16 gennaio 2021