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Io che voglio riabilitare…..(di Francesca Mussini, Fisioterapista)

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Un “riabilitatore” per me è colui che ha scelto di dare aiuto.

Aiutare significa per prima cosa saper ascoltare; saper leggere, nella persona che hai davanti, il “non detto”. Cosa vuole veramente il mio paziente? È da qui che costruiamo un aiuto.

Essere dei bravi riabilitatori non significa saper dare certezze e trovare velocemente la soluzione “nel cassetto delle risposte predefinite e giuste”.

Questo cassetto ce lo fornisce il nostro percorso accademico, la nostra formazione ed è lì, disponibile e pronto all’uso. Le risposte che vi troviamo sono definite dalle linee guida ritenute “giuste”. Ma giuste per chi? Per la maggior parte? Giuste per i parenti dei pazienti? Giuste per quella patologia? Queste sono domande che ogni fisioterapista dovrebbe porsi.

Accennavo all’importanza di saper ascoltare e vorrei approfondire l’argomento.

Per essere in grado di ascoltare non devo solo udire, ma percepire. Devo essere in grado di tenere aperti tutti i miei canali di ascolto, soprattutto i non verbali e affinare la mia sensibilità nel percepire al di là delle parole.

Per far questo è necessaria l’empatia, ovvero, la capacità di sentire l’altro nel profondo, saper leggere i sentimenti e i moti dell’animo del mio paziente. Questo mi permetterà di creare un legame e di costruire un percorso di aiuto stando non davanti, né dietro ma accanto.

La questione veramente difficile è riuscire a mantenersi empatici in un sistema che non prevede ritardi, dove sei premiato sei fai tanto e in fretta. L’empatia viene spesso sopita per potersi concentrare sull’apparire, sul mostrare agli altri quanto si è bravi. Ma il nostro lavoro non è una gara a chi è più bravo né un nutrimento della propria autostima, ma è un aiuto.

Dobbiamo ascoltare veramente per capire come il paziente vuole essere aiutato: questo è il punto. E per chiarire bene il concetto, vorrei raccontare una esperienza significativa, anzi forse la più significativa di tutta la mia carriera lavorativa.

Venne da me per essere riabilitata, accompagnata dal figlio e dai tre nipoti, Licia, un’amorevole nonnina di 93 anni. A causa del diabete aveva subìto un’amputazione di coscia e quindi era giunta da me per prepararsi a portare una protesi di arto inferiore al fine di tornare a camminare.

I parenti, entusiasti, la lasciarono nel Centro in cui lavoro ed ebbe così inizio un percorso di riabilitazione non facile, ma, per le caratteristiche della paziente, fattibile.

Licia si impegnava molto e presto riuscì ad indossare la protesi. Mi chiedeva ogni giorno di farle dei video da mandare subito ai nipoti. Questo entusiasmo, quasi eccessivo, però mi mise in allarme e iniziai a porre più attenzione a Licia. Uno sguardo, un commento, cose impercettibili che mi parlavano di lei. Ero così riuscita ad ascoltarla veramente ed ero arrivata a capirla.

Con tutto il coraggio necessario, un giorno, decisi di mettere via la protesi e mi misi seduta accanto a lei prendendole le mani. La guardai negli occhi e le chiesi di rispondere a questa semplice domanda: “…ma Licia, non la mamma né la nonna….Licia da sola, vuole mettersi la protesi?”

Lei stette in silenzio alcuni istanti e poi, guardandomi negli occhi e mettendosi a piangere mi rispose: “non voglio!”

Iniziò a parlarmi di come non volesse deludere figlio e nipoti, specialmente i suoi nipoti e che lei era venuta nel nostro Centro per far contenti loro. Mi parlò del fatto di come, giunta alla fine della sua vita, volesse viverla senza problemi su una sedia a rotelle, perché in quel modo si sentiva autonoma. Per mettere la protesi, vista la grave forma di artrite che aveva alle mani, avrebbe dovuto farsi aiutare e lei non voleva questo. In sostanza lei era felice sulla sua sedia e non voleva camminare con la protesi. Pensate: la soluzione presa dal “cassetto delle risposte predefinite e giuste” per lei non era affatto giusta!

Parlammo con il figlio e i nipoti, che alla fine capirono e Licia lasciò il nostro Centro senza protesi ma felice. Quando mi salutò mi ringraziò e mi disse che voleva che io tenessi la protesi (la conserviamo ancora nella nostra palestra) per ricordarmi che nel suo caso non avere la protesi è stato un grande successo riabilitativo.

Questo avvenimento mi ha segnata profondamente e mi ha fatto capire che il successo in riabilitazione non è sempre il far ricamminare un paziente, o farlo alzare dal letto. Riabilitare significa guidare un recupero secondo quello che il paziente desidera e non secondo quello che ci si aspetta da lui. Io riabilitatore non devo imporre ma guidare. Io non mi sostituisco, ma accompagno. Se è vero che al centro del nostro agire c’è il paziente, questo per me è il centro che ogni riabilitatore deve essere in grado di vedere!

 

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Postato il 18 giugno 2021